Tac­cui­no
Poe­sie di Vit­to­ria Fonseca

La poe­sia di Vit­to­ria appa­re gene­ro­sa­men­te confidente.
In una appa­ren­te sem­pli­ci­tà, la sua paro­la si affran­ca dal sim­bo­li­co e con slan­cio emo­ti­vo si con­se­gna al rischio di ripor­tar­ne il sen­so alla sua ori­gi­ne e di tor­na­re a esse­re nel­la sua pie­nez­za, pur nel­le assen­ze e nel­le lon­ta­nan­ze, quell’attimo e quel sus­sul­to di imma­nen­te peren­ne presente.
La sua poe­sia non è fat­ta solo di nostal­gia, non cri­stal­liz­za il tem­po, non con­fi­na le sin­go­le vicen­de in bol­le di memo­ria e non impri­gio­na il pen­sie­ro nel ricor­do, ma nell’albore del suo auten­ti­co ri-dire par­to­ri­sce il pas­sa­to, ogni vol­ta, ed è sem­pre una ri-nasci­ta, in car­ne e anima.
La poe­ti­ca di Vit­to­ria, con le sue rime, allit­te­ra­zio­ni e asso­nan­ze, pos­sie­de una gran­de for­za evo­ca­ti­va e una rea­le for­za di gra­vi­tà ver­ba­le, pie­na­men­te in gra­do di soste­ne­re la luce inte­rio­re da cui trae origine.
Come una piu­ma sul bara­tro, la sua poe­sia sa esse­re con­trap­pe­so alla ver­ti­ca­li­tà del vive­re, por­ta a dimo­ra le pere­gri­na­zio­ni dell’umano cammino.
(dal­la pre­fa­zio­ne di Clau­dio Ongarato)

Tac­cui­no dov’eri?
non ti trovavo –
dove fis­sa­re i pensieri?
Se non ci sei se ne vanno.

Cose che parlano
Poe­sie di Vit­to­ria Fonseca

Leg­ge­re i ver­si di Vit­to­ria Fon­se­ca gene­ra fedel­tà. Desi­de­rio di tor­na­re ad ascol­tar­ne la sot­ti­le malìa; voglia di guar­dar­la negli occhi, acu­ti, pene­tran­ti, solo acca­rez­zan­do­ne la caden­za. Sa costrui­re un alfa­be­to comu­ne, que­sta autri­ce pre­zio­sa e iro­ni­ca, di memo­ria e com­pas­sio­ne; è un fare che diven­ta appel­lo, ricer­ca di un pos­si­bi­le bene. La sal­vez­za, se sal­vez­za esi­ste, deve esse­re con­di­vi­sa. Anco­ra una vol­ta, in que­sta nuo­va rac­col­ta, Vit­to­ria ci abbrac­cia tut­ti: la sua lin­gua è poe­ti­ca, lad­do­ve tro­va la pro­pria iden­ti­tà con il lin­guag­gio di una pra­ti­ca vitale.
Non ci si può distac­ca­re dal tra­scor­re­re del tem­po e dal­le sue, anche ama­re, meta­mor­fo­si. Il resto è per­ma­nen­za cara e dolen­te. Vit­to­ria cono­sce la per­di­ta degli affet­ti, la tri­stez­za del mon­do, ma deci­de con­scia­men­te di pre­ser­var­ne la bel­lez­za pre­ca­ria: ciò che si può coglier­ne in un gesto, in un pas­sag­gio di luce. Deci­de, con volon­tà dol­ce e fer­rea a un tem­po, di rida­re espres­sio­ne alla luce del­le cose, met­ten­do un po’ da par­te (sen­za rinun­cia­re alla dimen­sio­ne affet­ti­va, che per­ma­ne come un bas­so con­ti­nuo) l’autonomia dell’io. È una poe­sia pros­si­ma, anche se raf­fi­na­ta, quel­la di Fon­se­ca, per­cor­sa da una sen­si­bi­li­tà epi­der­mi­ca che non tra­scu­ra i det­ta­gli, il rap­por­to con l’Altro.
(dal­la pre­fa­zio­ne di Fran­ce­sca Brandes)

Ho ria­per­to una vec­chia credenza
ho rivi­sto cose dimenticate
taz­ze bic­chie­ri posate,
sen­ti­to l’odore
la com­pa­gnia e il loro linguaggio
ram­pol­la­no imma­gi­ni preziose
cari vol­ti, momen­ti dissolti.